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POSSESSOR - recensione

Titolo: POSSESSOR
Titolo originale: Possessor
Regia: Brandon Cronenberg
Interpreti: Andrea Riseborough, Cristopher Abbott, Sean Bean
Anno: 2020

Una misteriosa organizzazione (post-ideologica, motivata solo dal guadagno economico) è in grado di colpire a distanza qualunque obbiettivo. Non solo ti uccidono: fanno in modo che la tua morte sia un inspiegabile incidente. Ti accoltellerà un'anonima hostess, un amico, tuo fratello, la tua partner. Quando meno te l'aspetti. La stampa parlerà di “raptus improvviso” e userà simili pseudocategorie, ma la verità è un'altra: l'involucro corporeo che ti ha attaccato è stato momentaneamente occupato, secondo un procedimento che ricorda la possessione demoniaca, dalla volontà di un agente. Una volta compiuto l'omicidio, gli darà l'ordine di uccidersi. E tornerà al proprio vero corpo, in un laboratorio segreto e distante.

 


Esiste un modo migliore per immaginare il “delitto perfetto”? Credo proprio di no.

 


Tasya Vos (Andrea Riseborough) è uno di questi killer mentali. Si tratta di una donna di mezz'età dai lineamenti anonimi, che vive in un quartiere senza storia e ha una famiglia scialba, se di famiglia si può davvero parlare. È molto brava ad uccidere, e il suo non è un lavoro facile. Serve freddezza, capacità di resistenza, e anche una certa abilità attoriale. Deve studiare i movimenti dell'altro, il suo modo di parlare, per impersonarlo così bene che nessuno si accorga della sostituzione.

 


Nonostante il corpo di Vos rimanga nel laboratorio sotto il controllo di tecnici e medici, le missioni sono per lei molto pericolose: ogni volta rischia di subire dei danni al cervello di varia entità, a seconda della compatibilità biologica col soggetto che deve possedere.

Ma un procedimento così innaturale non può non far sorgere altri problemi a lungo termine: ci accorgiamo subito che ce ne sono due belli grossi, e che Vos tende a sottovalutarli.

Il primo: è possibile per l'agente mantenere la sua autenticità fuori dal “lavoro”? Riuscirà sempre a ricordare chi è, nei rapporti con gli amici, con la famiglia, o sarà sempre più portata a vedersi dall'esterno, come una volontà indecifrabile che si nasconde dentro un corpo (e non importa più che questo sia suo o del posseduto)?

Il secondo: è davvero possibile svolgere questo “lavoro” in un modo oggettivo, senza alcun investimento emotivo?

 


L'atteggiamento di Vos è quello di qualunque lavoratore precario dei nostri giorni. Si rende conto di certi problemi che si accumulano nella sua psiche, ma fa finta di niente. Minimizza i danni. Quello che le importa non è “stare bene” ma “funzionare”, continuare a svolgere il lavoro che le viene richiesto e le cui implicazioni morali non sembra che le interessino, portare a casa lo stipendio. Non ha tempo e voglia per chiedersi: “Io, in realtà, chi sono? Perché mi succede questo?”. Si illude di essere uno strumento, di potere separare “quello che fa” da “quello che è”. 

 


Il meno che si può dire è che, come volontà esterna in un corpo che non è suo, Vos si trova durante le sue missioni in una condizione di grande fragilità. Una fragilità ontologica. È proprio in questi momenti che può affiorare un elemento che non tiene, la crepa nella consistenza del reale, la rivelazione tipica del weird: c'è qualcosa che non dovrebbe esistere e che mette a dura prova le nostre convinzioni. Che non ci fa più distinguere il reale dall'irreale. Che ci fa perdere il controllo.

 


Se parlare di “alienazione” oggi pare fuori moda può dipendere dal fatto che questa condizione è così diffusa, così presente intorno a noi che stentiamo a riconoscerla. Un motivo in più per apprezzare l'opera di Brandon Cronenberg, che affronta (almeno per la seconda volta, dopo l'ottimo Antiviral) i meccanismi che rendono l'uomo alieno a se stesso, e sforna un film essenziale, durissimo e, fidatevi, bellissimo. 

 


Possessor è estremamente efficace. Non è facile trovare un'altra pellicola (anche tra quelle non di speculative fiction) che  rappresenti con tale forza la spersonalizzazione e le angosce dell'uomo di oggi di fronte alla tecnologia, a un potere senza faccia e senza morale, all'onnipotenza dei grandi gruppi economici.

Possessor è quello che a volte è stato Black Mirror, nelle sue vette qualitative, e quello che avrebbe dovuto continuare a essere. È un pugno nello stomaco. È una lezione di stile.

Di più: Possessor è una grande opera d'arte. 

 


Sceneggiatura, immagini (ricorderete per molto tempo i manichini, le luci forti, i colori irreali, correlativi oggettivi della condizione dei personaggi) e colonna sonora producono un'inquietudine sottile; a tratti, nelle scene d'azione si affaccia una violenza realistica e cruda che è raro oggi vedere al cinema.  
I paesaggi urbani sono labirinti di vetro e cemento, freddissimi come se ne vedono in pochi film. Mi hanno ricordato quelli di una pellicola che ho molto amato: Tetsuo II: Body Hammer; mi piace pensare che, dato che in Possessor tornano anche i caschi cyberpunk e le sequenze di montaggio frenetico, Brandon abbia citato esplicitamente la pellicola di Shin'ya Tsukamoto. Il regista giapponese a fine anni '80 si ispirò dichiaratamente a Cronenberg senior, e adesso il figlio può valorizzare e riutilizzare le sue idee, accogliendole tra quelle fondanti di un ipotetico “corpus di film sull'alienazione post-umana”. La freddezza degli ambienti è anche quella delle anonime camere d'albergo, degli appartamenti, dei centri commerciali e perfino degli interni “altoborghesi” dove avvengono alcuni dei delitti.

 


Considerata la tematica affrontata verrebbe naturale fare paragoni o rimandi alla poetica del padre del regista, un certo David (psicosi allucinatorie, carne e tecnologia, controllo della mente: pare una questione di famiglia!) ma tutto questo lascerebbe il tempo che trova: non ce n'è bisogno. 

Brandon Cronenberg non sarà il più prolifico dei registi ma a noi piace così, e aspettiamo con estremo interesse qualunque meraviglia abbia voglia di mostrarci in futuro. 



scritto da: Andrea Berneschi


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