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UOMO INVISIBILE (L') - recensione

Titolo: UOMO INVISIBILE (L')
Titolo originale: The Invisible Man
Regia: Leigh Whannell
Interpreti: Elisabeth Moss, Oliver Jackson-Cohen, Aldis Hodge, Storm Reid
Anno: 2020

L’uomo invisibile, soggetto tratto dal romanzo letterario di H.G. Wells, ha avuto numerose trasposizioni cinematografiche a partire dal film di James Whale del 1933, dove venne inserito all’interno del ciclo dedicato ai mostri prodotto dalla Universal.

A quasi un secolo di distanza, la stessa Universal ripropone la figura dell’uomo invisibile affidandosi alla Blumhouse, casa cinematografica ormai nota per la realizzazione di horror dal basso budget e (in genere) di buon successo al botteghino.

 

 

La domanda sorge spontanea: come rilanciare l’uomo invisibile? Che cos’è l’uomo invisibile nella società del 2020? Ecco che allora la scelta ricade su una vicenda di stalking aggressivo; a farne le spese è la protagonista Cecilia (Elizabeth Moss) che vediamo all’inizio dell’opera scappare dalla bellissima villa (alla Frank Lloyd Wright) di Adrian (Oliver Jackson-Cohen), un miliardario potente, maniaco del controllo e luminare nel campo dell’ottica. Cecilia trova ospitalità da James (un poliziotto compagno della sorella avvocato) e qui le cose sembrano migliorare specie dopo la notizia della morte dell’ex, ma presto l’incubo ritorna: Adrian non solo non è morto, ma è riuscito a diventare invisibile e continua a perseguitare Cecilia che dovrà ricorrere a tutte le sue forze per uscirne e per convincere le persone attorno a lei di non essere uscita di senno.

 

 

L’uomo invisibile di Leigh Whannel, attore, regista e sceneggiatore che ha collaborato molto con James Wan (si pensi alle saghe di Saw e Insidious), e di cui consigliamo vivamente il film precedente Upgrade, è un’opera ben girata e opportunamente inserita nell’ottica del movimento metoo rimarcando le difficoltà a difendersi di una donna soggetta a stalking e a atti di violenza da parte del suo uomo.

Se nell’opera di Whale la donna amata dallo scienziato costituisce una figura più marginale che riesce a tenere a freno le manie omicide dell’uomo, ma non il suo desiderio di grandezza; in quella di Whannel si decide invece di metterla al centro della scena, come protagonista e allo stesso tempo come vittima. La dimensione del conforto sparisce completamente per far spazio a un senso di oppressione e angoscia che percorre tutto il film.

 

 

Interessante poi è la scelta di come acquisire l’invisibilità: non ci sono sieri, non c’è nulla di chimico, ma a farla da padrone è l’ottica: grazie infatti a una tuta dotata di una serie di microtelecamere Adrian riesce a rendersi invisibile creando così un paradosso: le riprese di quelle microtelecamere servono a nascondere il vero e il reale e non a svelare. Un aspetto opposto alla regia di Whannel che tende volutamente a inquadrare spazi apparentemente vuoti all’interno di varie scene a indicare la presenza del “mostro”, anche se noi non vediamo nulla, creandoci una tensione di stampo hitchcockiano.

Anche la scena finale (reazionaria? inevitabile?) che trasuda un certo pessimismo e che può essere punto di discussione, si lega a questo aspetto dell’ottica: sta a James decidere se credere o non credere a quello che vede.

 

 

Per concludere, L’uomo invisibile è sicuramente un’opera interessante non priva di difetti (ad esempio una prima parte abbastanza “telefonata”), che riflette sulla nostra contemporaneità, merita dunque una visione stando attenti a non esaltarla troppo.



scritto da: Paolo Utili


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