
Titolo: HEREDITARY
Titolo originale: Hereditary
Regia: Ari Aster
Interpreti: Toni Collette, Gabriel Byrne, Milly Shapiro, Alex Wolff, Ann Dowd
Anno: 2018
Recensire Hereditary evitando ogni spoiler, come da sempre si fa qui su filmhorror.com, ma in modo da essere chiari per qualsiasi tipo di lettore? Partiamo dal trailer, reperibile facilmente su youtube.
La prima caratteristica che colpisce è l'originalità delle scene che lo compongono. Non c'è quasi nulla degli ingredienti a cui i trailer degli horror più commerciali ci hanno abituati: manca un dialogo o una voce fuori campo che dà indicazioni temporali o spaziali, non c'è un protagonista giovane e bello in cui ci dovremmo identificare, nè si intravedono creature mostruose, né ci sono jump scare (su questo torneremo in seguito).
Qualcuno si chiederà: è forse un film che punta solo sull'originalità? Potrebbe sembrare la presentazione di un esperimento “artistico” privo di una trama vera e propria, tanto le immagini paiono diverse e poco collegabili tra loro.
Niente di più falso. La storia c'è, è solida, si regge bene sulle zampe, corre dritto verso la meta e morde pure. Fidatevi.
È solo che Hereditary, fin dal trailer, ci dà un avvertimento: non è fatto per gli spettatori che si sentono disorientati se non capiscono a ogni momento chi è il buono e chi il cattivo, per quelli che tendono a lamentarsi se non trovano ciò che si aspettano, o per chi crede che un film horror sia una torta che si può confezionare in un solo modo.
Osserviamo ancora le immagini. Con attenzione. Ascoltiamo i suoni.
Uno schiocco: la lingua contro il palato.
Una “casa di bambola” dentro cui, sembra, vivono delle persone.
Il padre entra nella minuscola camera e sveglia il figlio.
“Coraggio, Peter” dice. “Ecco il tuo vestito”. La colonna sonora, intanto, suda freddo.
Persone affrante a un funerale; la telecamera scivola verso il basso, sotto lo strato d'erba, sotto la terra scura...
Ecco il discorso di una donna davanti alla bara.
“Scalda il cuore vedere qui oggi tante facce sconosciute. Mia madre si sarebbe commossa, e... anche un po' insospettita”.
La foto sulla tomba. Qualcosa nella postura e nei colori non torna: è davvero la foto di una morta?
Una ragazzina seduta in prima fila disegna su un quaderno un volto urlante; schiocca ancora la lingua.
Il suono si ripete, insistente come le gocce di un lavandino che perde; intanto, ecco nuove corrispondenze tra scene reali e quelle rappresentate da un plastico. Si succedono gli interni (poco illuminati, ma con luci che producono forti contrasti) e gli esterni (di notte, solari alla Kynodontas, grigi).
Un piccione si schianta contro la finestra della scuola. La ragazzina dei disegni, in giardino, ne contempla il cadavere addentando una tavoletta di cioccolato.
Un ragazzo sbatte la testa contro il banco e urla. Strane luci percorrono le stanze. C'è gente sul soffitto.
Una delle cose più intelligenti su questo film (giuro: anche a me era venuto in mente) l'ha scritta l'ottima Lucia Patrizi su Il giorno degli zombie (qui): invece di basarsi su meccanismi ormai conosciuti da tutti, come i jump scare, Hereditarycostruisce la paura nello spettatore in modo diverso, agendo a un livello molto più profondo. E funziona proprio per questo.
Niente salti sulla sedia, dunque. È come vedere uno stand-up comedian che evita le punchline, che non usa battute finali a effetto, da barzelletta. Se è bravissimo, se stiamo assistendo a uno spettacolo dello Sgargabonzi, per esempio, questa strategia dà i suoi frutti, e il pubblico a fine serata torna a casa arricchito dall'esperienza. Non ha in testa solo due o tre battute che funzionano e che può ripetere il giorno dopo ai colleghi di lavoro: è entrato in un mondo diverso da quello a cui è abituato, con i suoi paesaggi, le sue leggi della fisica e le sue meraviglie. E viaggiare dentro quel mondo un po' l'ha cambiato.
Guardiamo ancora le immagini del trailer, per un'ultima volta. Tutte, in un modo o in un altro, contengono qualcosa che ci disturba.
A volte crediamo di sapere il perché, di riconoscere gli ingredienti con cui sono state assemblate; a volte è più difficile. Le prime tre sequenze a me personalmente fanno tornare in mente i tempi di quand'ero piccolo e per caso mi imbattevo alla TV in un film dei Monty Python o di altri registi di cui non capivo la comicità: invece di farmi ridere mi spaventavano.
Ritrovo qui lo stesso effetto di straniamento. È una sensazione che provo solo io?
Veniamo ora alle linee di forza della trama, senza ovviamente rivelarla.
Da questo punto di vista la miniatura dell'interno domestico, la “casa di bambola”, è indicativa: segna una netta differenza tra il dentro e il fuori.
Fuori, alla luce del sole, c'è un mondo spietato e poco comprensibile.
Dentro la casa, nell'oscurità, i membri della famiglia si stringono l'uno all'altro e cercano di farsi forza a vicenda.
Per il “fuori” tentiamo qualche cenno sociologico e politico.
Non siamo in un horror degli anni '80. “Fuori” non significa gioia di vivere: è sparita perfino dalle feste, latita nei corridoi scolastici. I giovani conoscono solo noia, ansia di divertirsi a buon mercato, un certo cinismo. È nell'apatia che il giovane Peter passa il tempo durante le lezioni scolastiche (che si parli di Grande Depressione o di tragedie greche non fa una piega, eppure in un certo senso tutti e due gli argomenti dovrebbero interessarlo!), e i coetanei che frequenta non sono migliori di lui. Sua sorella, Charlie, che ha evidenti problemi cognitivi, è isolata e ignorata da tutti.
Parliamo ora di quello che c'è “dentro”.
La casa, più che come un rifugio collettivo, appare la somma di molti rifugi individuali, divisi l'uno dall'altro, quasi autistici.
Ogni personaggio si è costruito il proprio angolo in cui rifugiarsi. Charlie ha il quaderno dei disegni fatti male, lo schiocco della lingua sul palato, la casa sull'albero. Peter ha le droghe. La mamma ha i modellini delle stanze a scala ridotta, che gli servono un po' da hobby, un po' da lavoro e un po' come tentativo di autoanalisi. E anche la razionalità di Steve, il padre (un Gabriel Byrne molto misurato, che sembra il protagonista di In Treatment che l'ha reso famoso) è forse solo una scappatoia.
Oltre la finestra c'è un mondo terribile, ma la famiglia non sempre salva i suoi membri: a volte è peggio di tutto ciò che si può trovare fuori.
Può nascondere i veri orrori, che vengono prima di ogni elemento soprannaturale, che gli preparano il terreno: il senso di colpa, l'incapacità di amare, l'egoismo… e la volontà di decidere sulla pelle degli altri.
Hereditary è un bell'esempio di cinema horror d'autore; non è detto che debba piacere a tutti, ma va ad Ari Aster (un trentenne esordiente!) il rispetto che si deve ai registi che creano qualcosa di nuovo, che portano avanti una complessa ricerca personale. Bravissimi anche gli attori, soprattutto Toni Collette e Milly Shapiro, ma anche Alex Wolff, Gabriel Byrne e Ann Dowd (la zia Lydia di The Handmaid's Tale).
Inquietante, originale, molto bello.
Miglior film dell'anno? Ha poco senso una simile definizione; lo rivedremo comunque più volte nel prossimo e nel lontano futuro.