a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z 123




INCUBO DI HILL HOUSE (L') - recensione

Titolo: INCUBO DI HILL HOUSE (L')
Titolo originale: Haunting Of Hill House (The)
Regia: Shirley Jackson
Interpreti:
Anno: 1959

Shirley Jackson (1916 – 1965), statunitense, è una delle poche autrici da annoverare tra i grandi maestri dell’Horror. Scrittori del calibro di Neil Gaiman, Richard Matheson e Stephen King hanno dichiarato più volte di essere stati influenzati dalle sue opere. King le dedica il suo L’Incendiaria (1980) con queste parole: “In ricordo di Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce”. È difficile trovare una frase più azzeccata per definire lo stile della scrittrice; basta leggere l’incipit de L'INCUBO DI HILL HOUSE per provare quanto questo “non alzare la voce” sia un espediente capace di produrre potenti effetti. Chi ha letto Le Notti Di Salem riconoscerà il brano, che lo scrittore del Maine pone a introduzione della prima parte del suo romanzo (intitolata, non a caso, “Casa Marsten”: mentre si appresta a raccontare la prima “casa strana” della sua carriera, King omaggia una delle sue fonti di ispirazione).

 

“Nessun organismo vivente può restar sano a lungo in condizioni di assoluta realtà; si crede che perfino allodole e cavallette sognino. La casa sulla collina, dove non era sanità ma follia, sorgeva in alto, isolata, piena di tenebra; là era stata per ottant’anni e prometteva di starvi per altri ottanta. All’interno, le sue mura si incrociavano regolarmente; i mattoni si sorreggevano a vicenda nel modo abituale; i pavimenti e i soffitti erano solidi e le porte quasi sempre chiuse. Sul legno e sulla pietra della casa sulla collina posava un fermo silenzio e qualunque cosa vagasse là dentro, vagava in solitudine”.

 

Nel brano non si sente l’eco di nessun grido, non c’è bisogno che appaia nessuno schizzo di sangue, al lettore non viene neanche data la certezza che nella casa ci sia qualcosa di soprannaturale. Eppure i riferimenti al silenzio, ai sogni, alla sanità mentale e al suo imperfetto dominio sulla realtà creano un quadro di attesa da incubo. Per insinuare angoscia nel lettore, ci dimostra la Jackson, non c’è bisogno di fargli sentire rumori di catene o di mostrargli figure diafane che si spostano tra l’oscurità delle stanze: può bastare la sola descrizione della casa, isolata, avvolta nel silenzio e soprattutto, vuota. Il fatto che le pareti siano dritte e i mattoni ben connessi, invece di apparire del tutto normale sembrerà avere in sé qualcosa di strano, come se fosse un inganno teso a nascondere ben altro. L’effetto è raggiunto: dopo aver letto questo brano, l’interno di una vecchia casa vuota sembrerà una delle cose più inquietanti che ci siano.

 

Ma torniamo a Hill House. Gestita da custodi scorbutici, accuratamente evitata dagli abitanti dei villaggi vicini che ne negano persino l’esistenza, ha visto accumularsi su di sé, con gli anni, una fama sinistra. Chi ne conosce la storia sa che follia, disperazione e suicidio hanno avuto la loro parte nella vita dei suoi inquilini. Il Professor Montague, laureato in filosofia e appassionato di paranormale, è intenzionato a compiere uno studio sui fenomeni psichici che avvengono nelle cosiddette case infestate. Affitta la casa per tre mesi e come suoi assistenti chiama tre persone, scegliendole tra chi è legato in qualche modo a fenomeni fuori dall’ordinario e dunque in qualche modo si è dimostrato “ricettivo”. Passeranno alcuni giorni e alcune notti insieme a lui l’introversa Eleanor, la decisa Theodora e Luke, discendente dalla famiglia proprietaria della casa; li raggiungeranno in seguito anche la moglie dello stesso Montague e il suo amico Arthur.

 

La casa è indubbiamente sinistra. Vista da fuori, la sua stessa facciata sembra covare malvagità; il profilo, che non ha oggettivamente niente di strano, è disturbante, come se fosse composto da un insieme di linee architettoniche malate, disumane: sarebbe piaciuta a Lovecraft. Le stanze, dentro, sono disposte in modo bizzarro e formano una specie di labirinto; sono inoltre tutte leggermente “fuori squadra”, con angoli e piani impercettibilmente inclinati, come se chi le ha progettate avesse voluto deliberatamente ingannare i sensi dei visitatori, farli sentire costantemente come sotto l’influsso di qualche leggera sostanza stupefacente. Un “punto freddo”, tipico fenomeno delle case infestate, si trova all’entrata di quella che viene chiamata la “stanza dei bambini”...

 

Pagina dopo pagina, la tensione si accumula. Il lettore si trova nella stessa condizione dei personaggi del libro: è entrato in un ambiente malsano, sa che c’è una minaccia in agguato, ma non sa bene quando scatterà e sotto quale forma si presenterà; il fatto che questa minaccia sia non bene precisata la rende ancora più terribile.
Non si tratta della casa, è il testo narrativo ad essere infestato. I mattoni della prosa reggono perfettamente, soggetto, verbo e complementi sono al loro posto; ma c’è qualcosa di fuori squadra in ciò che viene raccontato e si sente. Di cosa è normale parlare, di notte, in una casa stregata? Cos’è normale pensare? Se un rumore ci sveglia, fino a che punto ridere può essere una reazione normale e da che punto in poi è segno di isteria?

 

Il romanzo è una grande prova di stile, un caposaldo del genere. A dominare è il terrore psicologico, alla Repulsion: l’equilibrio mentale dei personaggi oscilla, le dinamiche di gruppo degradano fino al punto di sfaldarsi, si oltrepassa la soglia tra normalità e follia: tutto questo viene raccontato in modo del tutto naturale, senza enfasi, senza “alzare la voce”. La caratterizzazione di alcuni personaggi può risultare un po’ antiquata per il lettore moderno, ma bisogna ricordarsi che questo è un libro scritto negli anni ’50: probabilmente la “donna emancipata” e il “giovane elegante scapestrato” erano tipi umani che si potevano incontrare dietro l’angolo. È invece soprattutto il ritratto psicologico di Eleanor (sulla quale Stephen King spende molte pagine nel suo saggio Danse Macabre) a caricare di intensità questo romanzo. Dal libro sono stati tratti due film: Gli Invasati (1963) di Robert Wise e “Haunting / Presenze” (1999) diretto da Jan De Bont.



scritto da: Andrea Berneschi


comments powered by Disqus