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RADICE QUADRATA DI TRE - recensione

Titolo: RADICE QUADRATA DI TRE
Titolo originale: Lidris Cuadrade di Tre
Regia: Lorenzo Bianchini
Interpreti: Andrea Agostinis, Laura Bau, Beatrice D'Ambrosio, Alberto Della Piana, Luigia Di Betta, Alessandro Fabro, Annalisa Gaudio
Anno: 2001

Più che ad Argento o Bava, citati come fonti d’ispirazione per il lavoro di Bianchini (come anche The Blair Witch Project, accostamento alquanto semplicistico), il regista friulano sembra essere più attratto da certe suggestioni care al cinema di Lynch, con i tre ragazzi protagosinsti della storia che fluttuano in una dimensione che sdoppia corpi e anime.  Un vero e proprio viaggio negli Inferi, che non può e non deve trovare la luce, perché è il Buio a porsi come garante del silenzio e come intoccabile rappresentante del Male oscuro, presente nell’anima di ognuno di noi.

 

Tecnicamente parlando, Bianchini ha dalla sua una mano sicura e un talento non comune nell’utilizzo della telecamera (il film è stato girato in formato MiniDV). Unico difetto, che limita un po' il valore di RADICE QUADRATA DI TRE è l’eccessiva durata: la versione originale durava quasi due ore, ma nonostante il girato sia stato ridotto a 97 minuti, è impossibile non accorgerci di tante sequenze inutili.

 

Nel 2001, questo primo lungometraggio di Lorenzo Bianchini ha vinto il primo premio alla Mostra del Cinema Friulano, ottenendo anche una piccola distribuzione presso le sale locali. Girato interamente in lingua friulana, (ma è possibile guardarlo con i sottotitoli) è ambientato presso l’Istituto Tecnico Malignani di Udine e interpretato da attori non professionisti. L’opera di Bianchini è ipnotica, claustrofobica e inquietante, con connotazioni metalinguistiche che fanno dell’uso della telecamera uno strumento di perversione visiva.

 

Tre studenti pluriripetenti, dopo aver fallito un compito di matematica decisivo ai fini della promozione all’anno successivo, si introducono furtivamente nottetempo nella scuola, per sostituire le copie dei test.  Finiscono così  in un incubo senza fine, al cospetto di riti satanici che vedono protagonisti nientemeno che i professori dell’istituto.

 

Dalla sinossi di base, è facile intuire come sia la scuola stessa a diventare il soggetto principale dell'intera narrazione, grazie alla presenza di lunghi corridoi poco illuminati e di sotterranei lugubri e inesplorati.
Non sono i protagonisti a interagire con l’ambiente modificandolo secondo le esigenze del racconto, ma avviene esattamente l’opposto: è la scuola che inghiotte i malcapitati in una conca fumosa che annebbia pensieri e azioni, agendo nella mente dei ragazzi alla stregua di una lobotomia che ne annulla la forza di volontà, fino a trascinarli in maniera graduale verso gli abissi della follia.

La poetica dell'orrore di Bianchini viene rappresentata con dettagli macabri e espliciti: un angelo con i moncherini sanguinanti e le mani tagliate al posto dei piedi, un prete ucciso da un penitente che ha la voce del Diavolo, particolari agghiaccianti e immagini sfocate.

Forse, limitando il final cut alla durata di un mediometraggio, il film sarebbe stato ancor più coinvolgente e conturbante. Rimane però il tocco di un regista con un’idea di cinema fresca e sapiente, pienamente confermata nel successivo Custodes Bestiae, che certamente meriterebbe di raggiungere il grande pubblico, anche internazionale.



scritto da: Alessio Gradogna


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