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CULTI SVEDESI - recensione

Titolo: CULTI SVEDESI
Titolo originale: Svenska kulter
Autore: Anders Fager
Anno: 2009

Quale terribile verità si nasconde nei boschi dell’oscura Borås, dove aleggia la figura del misterioso Capro Nero? Dove porterà mai il sanguinario viaggio della “Nonna”? Chi si cela dietro le parole dell’Ambasciatrice della Donna Enfia? Cosa può succedere quando una gelida nevicata si abbatte su un esercito nel 1718? E perché mai le opere d’arte e le fotografie estreme della signorina Witt hanno suscitato l’interesse della misteriosa Annette Glasser e della Fondazione CarcosaCulti svedesi è la prima raccolta di racconti di Anders Fager che va a comporre la trilogia del Mondo dei Culti. Le sue storie, ambientate per lo più nell’odierna Svezia, propongono una visione moderna dei Miti di Cthulhu, in un mondo in cui le entità del pantheon lovecraftiano, da Shub-Niggurath a Yog-Sothoth, da Ithaqua ad Hastur, si sono insinuate sulla Terra, nascoste agli occhi dei comuni mortali, a definire la follia, la violenza, la corruzione della società moderna. 

 


Moltissimi autori hanno provato, con differenti approcci e diversi risultati, ad attualizzare le tematiche e le atmosfere lovecraftiane. Si va dal sentito omaggio one shot (il bellissimo Crouch End di Stephen King, contenuto in Incubi e Deliri) a opere più corpose (L'antologia Lovecraft 2000 della Sperling & Kupfer, Saggezza stellare edita da Einaudi, e sarebbe doveroso citare Providence di Alan Moore, i libri di Thomas Ligotti, Huellebecq, in senso lato ...). Anche in Italia ottimi autori si sono dedicati a reinterpretare i miti del Maestro di Providence; mi vengono in mente soprattutto Danilo AronaAlessandro ForlaniClaudio VergnaniSamuel Marolla... (gli altri non me ne vogliano; non è lo scopo di questa recensione stilare una lista completa, e comunque è raro trovare nell'horror contemporaneo un elemento che NON sia di matrice lovecraftiana). Nel nostro paese, se non sbaglio, le prime antologie-tributo sono state quelle della Dunwich EdizioniRitorno a Dunwich (2013) e Ritorno a Dunwich II (2016).

 


Quello che sicuramente il lettore non vuole da un libro che si presenta come un esplicito omaggio a Lovecraft è trovarsi tra le mani un oggetto senza personalità, né stilistica né di contenuti. HPL è un buco nero: solo uno sprovveduto può pensare di avvicinarglisi senza correre il rischio di essere risucchiato. E parlando di horror contemporaneo sappiamo che c'è almeno un altro abisso da cui ogni autore deve guardarsi: la piattezza del mainstream, le regoline asfissianti su come si struttura un capitolo, come si caratterizza un personaggio, come si scrive un dialogo che milioni di imitatori di King si sono dati, e che non sanno superare.

 


Fager scrive horror lovecraftiano riuscendo a evitare questi due macroproblemi. Come c'è riuscito? Si è messo in gioco.  Ha sfoderato il suo carattere (leggete questa breve intervista e potrete farvene un'idea) ed è riuscito ad essere originale.

Nella stesura dei racconti si è dato certe regole, che rispetta sempre:

1) Usa solo frasi brevi o brevissime, alla Hemingway, senza andare mai a capo.

2) Privilegia il punto di vista di un solo personaggio; lascia agli altri poco spazio e solo quando è necessario.

3) Non disdegna scene legate al sesso (ma non vi fate ingannare da alcune recensioni che si leggono in rete: non è mai troppo esplicito). 

4) L'ambientazione è svedese (quasi sempre contemporanea). Ottimo. Personalmente non so quanto avrei sopportato un autore svedese che “vuole fare l'americano”.

E quindi, soprattutto:

5) Va contro ogni stereotipo hollywoodiano, nei dialoghi, nelle scene, nella caratterizzazione dei personaggi.

 


“Un film è guidato dai suoi personaggi, non dai suoi effetti speciali” recita il primo consiglio che Takashi Miike ha voluto dare ai giovani cineasti quando gli è stato chiesto di compilare una specie di decalogo. Potremmo aggiungere: “un racconto è guidato dalle sue atmosfere, non dai mostri e dal sangue”. 

Sono sicuro che anche Fager la pensa così. Preferisce stimolare la nostra immaginazione che mostrare i soliti tentacoli e le solite aberrazioni. Nei racconti di Culti Svedesi l'autore non solo nasconde le fattezze del mostro o della divinità attorno a cui ruota la trama, ma a volte perfino la vendetta che chiuderebbe un arco narrativo, o una scena altrettanto importante. Nonostante questo, si ha la sensazione che tutto funzioni a dovere.

 


Fager non vuole un lettore passivo. Dobbiamo seguirlo riga dopo riga. Senza perderlo di vista mentre, per mezzo di frasi tozze e squadrate come mattoncini Lego, costruisce con estrema precisione lo scenario su cui si affacceranno gli Antichi. Come in un plastico, un diorama, o un presepe (se preferite) vediamo delle piccole riproduzioni di città svedesi (e non solo). Estremamente realistiche. L'arrivismo. La TV spazzatura. La piccola criminalità. Le droghe. Le comunità di immigrati che vengono messe ai margini. Artisti che guardano più ai follower su Instagram che al significato di quello che realizzano. L'egoismo. La competizione. La solitudine.

Non c'è bisogno di grandi sforzi per riconoscere la sua Svezia come un pezzetto del mondo in cui viviamo. Uno scenario perfetto per l'evocazione di mostri stellari. Che possono impunemente gettare la loro ombra malata sulle pareti dei palazzi, sulle strade, sui boschi e sul mare. Che si fanno sentire in modo sempre più deciso, finché si affacciano, come da dietro le quinte, da dietro l'apparenza “normale” dell'esistere. E incarnano un rimosso oscuro, eterno, che mette a dura prova la fragile ragione degli uomini. 

 


Non amo particolarmente gli scrittori che usano un solo stile: penso che ogni storia dev'essere raccontata col mezzo più preciso e adatto. Fager però non cade nemmeno in questo difetto: ha l'abilità di declinare il suo “motore narrativo” ogni volta in diversi modi e gusti.

Cosa altro dire? Culti Svedesi è nel complesso un ottimo libro horror e spero vivamente che l'editore Hypnos voglia tradurre gli altri libri del ciclo.



scritto da: Andrea Berneschi


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