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SCHIAVI DELL'INFERNO - recensione

Titolo: SCHIAVI DELL'INFERNO
Titolo originale: The Hellbound Heart
Autore: Clive Barker
Anno: 1986

SCHIAVI DELL'INFERNO è il secondo romanzo di Clive Barker. Pubblicato nel Novembre 1986 dalla casa editrice Dark Harvest all’interno di un’antologia della serie Night Visions, dopo il grandissimo successo del film che ne venne tratto (Hellraiser, 1987) fu ripubblicato nel 1988 in volume autonomo dalla Harper Collins. In effetti è uno di quegli oggetti narrativi che possono essere classificati sia come racconto lungo che come romanzo breve: l’edizione italiana Bompiani (traduzione di Tullio Dobner) conta appena 124 pagine.

 

Chi conosce bene l’opera di Clive Barker sa che in gioventù il “necromante di Liverpool” ha avuto una discreta esperienza teatrale. Dopo aver frequentato le facoltà di Letteratura Inglese e Filosofia, prima che i suoi racconti horror gli portassero il successo che meritava si dedicò principalmente al ruolo di regista teatrale, attore e disegnatore di effetti speciali (a quanto pare disegnava anche illustrazioni per una rivista sadomaso). L’esperienza che Barker ha accumulato nel mondo del Teatro si fa sentire positivamente in SCHIAVI DELL'INFERNO e contribuisce non poco alla bellezza di questo romanzo. Agli inizi della sua carriera letteraria, non ha bisogno di seguire le orme di nessuno, ma già possiede un suo stile originale. Come avviene nelle migliori rappresentazioni sceniche, la sua scrittura è ispirata a principi di economia narrativa, di forza espressiva delle immagini, di equilibrio tra quello che viene mostrato e quello che viene lasciato alla fantasia dello spettatore.

 

Tanto per cominciare, i conflitti tra i personaggi si risolvono in un unico ambiente: la casa in cui Julia e suo marito (nel film si chiamava Larry, nel romanzo Rory) vanno ad abitare. Questa sembra già pensata per essere una scenografia: è composta soprattutto da due stanze, in forte contrasto tra loro, un salotto illuminato e una soffitta oscura. L’influenza delle forme teatrali emerge anche nel sistema dei personaggi. A dominare sono il principio dell’economia (invece di una folla di personaggi, solo quattro) e la scelta di una struttura forte (netta differenziazione dei caratteri). Abbiamo un quadrato perfetto: due uomini (Rory e Frank) e due donne (Julia e Kirsty), ulteriormente suddivisibili nelle categorie dei personaggi “sessualmente aggressivi” (Frank e Julia) e in quello dei “sessualmente inattivi” (Rory e Kirsty). L’ultima suddivisione è sovrapponibile a quella tra carnefici e vittime. Il gioco delle simmetrie prosegue: ai quattro personaggi umani corrispondono quattro Supplizianti.

 

È chiaro, inoltre, che una certa frequentazione del teatro implica la capacità di scrivere dialoghi credibili e non scontati. La storia è molto semplice: Frank, un’anima inquieta, un egoista sempre in cerca di piaceri e di cose insolite, nel corso di uno dei suoi tanti viaggi per il mondo ha riportato in Inghilterra un curioso rompicapo a forma di cubo, che si dice possa portare a chi lo risolve piaceri inimmaginabili e proibiti. Una volta decifrato il suo enigma, questo apre un portale di collegamento con un’altra dimensione dalla quale arrivano quattro inquietanti esseri, i Supplizianti. Frank ha chiesto di partecipare ai loro piaceri; ora si rende conto che, purtroppo, la loro idea di piacere è molto diversa dalla sua.

 

“- Che città è questa? - chiese uno dei quattro. Giudicarne il sesso gli era impossibile. Gli indumenti, alcuni dei quali cuciti alla e nella sua pelle, ne nascondevano le intimità e nulla nella risonanza della sua voce o nei lineamenti volutamente sfigurati, offriva il minimo indizio. Quando parlava gli uncini che gli tendevano lembi di pelle sopra gli occhi e che tramite un complicato sistema di catene gli attraversavano insieme carni e ossa erano collegati ad altri analoghi rampini collegati al labbro inferiore, assecondavano i movimenti del volto, esponendo il rosso luccicante della carne viva. Frank non rispose. Il nome di quella città era l’ultimo dei suoi pensieri.
- Capisci? - domandò l’essere fermatosi accanto al primo parlatore. La sua voce era diversa, leggera e alitata, la voce di una fanciulla eccitata. Un fitto reticolo gli tatuava per intero la testa e a ogni intersezione degli assi orizzontali e verticali uno spillo ingioiellato gli penetrava nell’osso. Allo stesso modo aveva decorata la lingua. - Sai almeno chi siamo? – chiese”.

 

Tutti noi lo sappiamo: è la prima apparizione di una delle principali icone del cinema horror degli anni ’80, assieme a Freddy Krueger e Jason Voorhees: il cenobita Pinhead. Il suo look è un po’ diverso, la voce è irriconoscibile, ma è lui, nella sua prima apparizione pubblica. I Supplizianti, “teologi dell’Ordine dello Squarcio”, trascinano Frank nel loro mondo parallelo, dove di certo gli fanno passare dei brutti momenti. Nella casa in cui è morto si trasferiscono suo fratello Rory e la moglie Julia; ogni tanto fa loro una visita Kirsty, che qui (a differenza del film) non è la figlia di Rory/Larry, ma una sua amica e forse è anche attratta da lui.

 

Coi nuovi inquilini, per Frank arriva una inaspettata occasione di fuga: quando suo fratello si ferisce ad una mano, il sangue che cola sul pavimento lo richiama alla vita. Ricompare nella soffitta come una sorta di modello anatomico insanguinato e per poter ricostruire completamente la sua forma umana ha bisogno di altro sangue. Solo Julia, che con lui aveva avuto un flirt prima del matrimonio, gli può fornire le prede di cui necessita.

 

Nel romanzo si dà maggiore spazio che nel film alla prima entrata in scena dei Supplizianti, ma poi compaiono in poche sequenze: una scelta vincente. Il loro ruolo quando tornano, verso la fine, è quello di veri e propri “Dei ex machina” (e in un certo senso, sono davvero delle divinità): si confermano i non banali richiami di questo romanzo alla tradizione teatrale. La caratteristica fondamentale di Pinhead e dei suoi compagni non è la malvagità, ma l’ambiguità: si definiscono “Angeli per alcuni, demoni per altri”. Non rappresentano il male assoluto, ma qualcosa di disumano, o di oltreumano. In SCHIAVI DELL'INFERNO, per fortuna, non ci sono i tipici ingredienti che oggi spianano la strada alla realizzazione di un film hollywoodiano. Nessuno deve salvare il mondo: ai Supplizianti non interessa conquistare la nostra dimensione, si manifestano perché vengono chiamati, e parlano e contrattano solo con chi li ha chiamati. Non c’è una morale rassicurante o un invito alla fiducia nel genere umano. Non c’è neanche, in tutto il libro, una storia d’amore vista in chiave positiva: a dominare è semmai il tema della passione sessuale.

 

Come nei migliori racconti dei “Libri Di Sangue”, Barker si dimostra un grande inventore di trame e di immagini originali, che non sono mai ricalcate su quelle abusate del genere. I Supplizianti non sono demoni, ma qualcosa di mai visto prima (il titolo originale di Hellraiser era nientemeno che Sadomasochist From Beyond The Grave); Frank non è né uno zombie né un vampiro, ma una nuova e riuscitissima forma di revenant.

 

SCHIAVI DELL'INFERNO è un breve capolavoro del tutto indicato per dare un assaggio dello stile di Barker a chi conosce poco questo autore. Peccato che negli scaffali delle librerie dedicati alla narrativa horror si faccia fatica a trovare il suo nome.



scritto da: Andrea Berneschi


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