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DUMA KEY - recensione

Titolo: DUMA KEY
Titolo originale: Duma Key
Autore: Stephen King
Anno: 2008

Un imprenditore edile di successo, Edgar Freemantle, subisce un incidente che lo priva del braccio destro e gli lascia altri problemi, tra i quali i più gravi sono difficoltà nel linguaggio e scatti improvvisi di aggressività. Come se non bastasse, in uno di questi momenti di rabbia incontrollata cerca di strangolare la moglie, che lo lascia. Edgar decide allora, su consiglio del suo psicanalista, di ritirarsi per un periodo indefinito in una villa nella piccola isola di Duma Key, al largo della Florida.

 

Qui, ha tutta la tranquillità e il tempo che vuole per riprendere contatto con sé stesso. L’incidente, a quanto sembra, gli ha tolto qualcosa ma gli ha dato altro in cambio: Edgar si ritrova ad avere un incredibile talento nella pittura, un talento che è collegato al suo braccio mancante, dal quale a volte sente provenire pruriti, sensazioni, impulsi. Dipinge come in uno stato di trance, guidato dall’ “arto fantasma” come dalla bacchetta di un rabdomante. I quadri surreali che produce rischieranno di rovinare la sua vita e quella di chi gli è rimasto vicino: celano infatti un segreto collegato a qualcosa che si trova sull’isola, qualcosa di oscuro e minaccioso, che proviene da un lontano passato…

 

L’incidente che subisce il protagonista è un chiaro riferimento a quello che ebbe lo stesso King nel 1999, quando fu investito da un minivan durante una delle sue abituali lunghe passeggiate. Le ferite dell’autore e quelle del personaggio coincidono: polmone destro collassato, gamba destra fratturata, lesioni alla spina dorsale, trauma cranico, lacerazione del cuoio capelluto.

 

King, per fortuna, non ebbe danni cerebrali e non perse il braccio destro, ma rischiò l’amputazione della gamba. Ancora più importante, per stabilire un parallelo tra Edgar e Stephen, è come lo scrittore del Maine visse l’evento: durante la lunga e dolorosa convalescenza meditò addirittura di ritirarsi dalle scene. Probabilmente trovò nello scrivere un’ancora di salvezza, come il protagonista del romanzo la trova nel dipingere.

 

Nonostante il probabile valore personale che questa storia ha per King, tirando le somme possiamo dire che DUMA KEY è un romanzo non del tutto riuscito. La prima metà del libro è molto coinvolgente e scritta benissimo. Ci troviamo di colpo imprigionati, assieme al protagonista, dentro un corpo che non funziona più, che non riesce a relazionarsi con gli altri, che sente mancare gli appigli che lo ancoravano alla sanità mentale, alla società umana, alla vita.

 

Persino il linguaggio sembra abbandonarlo. In Edgar Freemantle si può riconoscere ogni uomo che è stato colpito dal destino, che ha perso tutto quello che aveva. Sentiamo quanto è reale il suo dolore, quanto profonda è la sua rabbia, siamo testimoni delle sue tentazioni suicide. Siamo con lui quando decide di reagire, quando trova un amico in Wireman (un avvocato dal tragico passato, anche lui residente nell’isola), facciamo il tifo quando accetta il cambiamento e prova a fare quello che mai nella sua vita precedente avrebbe fatto: dipingere.

 

A questo punto, dopo aver interessato e coinvolto il lettore, il romanzo vira verso una direzione inaspettata. L’atto della pittura, da ancora di salvezza, si trasforma per il protagonista in una maledizione e questo avviene senza che ne sia data una ragione percepibile. L’eroica storia della sua lotta con la morte e della sua resurrezione si trasforma in quella di una battaglia abbastanza convenzionale tra alcuni uomini e un’entità soprannaturale malefica. Il finale è abbastanza godibile, ma sembra poco coerente con il resto del libro.

 

È strano che in un romanzo la parte relativa ai piccoli avvenimenti della vita quotidiana (quello che gli inglesi chiamano ‘novel’) risulti molto più appassionante di quella che riguarda l’avventura e il conflitto tra i personaggi (il ‘romance’). Viene come il sospetto che, partito da uno spunto interessante, King non abbia poi saputo dove condurre la storia e abbia deciso di tenersi ancorato ai cliché e alle sicurezze del mestiere.

 

Probabilmente avrebbe raggiunto un risultato migliore se avesse abbandonato del tutto il lato horror della storia (l’autore ha dimostrato più volte di saper scrivere romanzi non-horror, raggiungendo risultati comunque eccellenti), o se si fosse focalizzato su un tipo di orrore diverso, psicologico per esempio, o esistenziale, ma non soprannaturale.

 

Stephen King è un narratore di razza e riesce a rendere interessante praticamente qualsiasi storia. Per questo, forse, il lettore affezionato da lui pretende molto, forse troppo. Resta comunque la sensazione che questo romanzo, anche se comunque di un certo livello qualitativo, sia un’occasione mancata.



scritto da: Andrea Berneschi


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