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H.P. LOVECRAFT & R. BRADBURY: QUALCOSA VIVE NELL'ABISSO!

Bentrovati su Oltretomba la zona morta per gli amanti della storia del cinema e della lettertura dell'orrore. Quanto segue è una breve analisi comparata tra DAGON di H.P.Lovecraft e THE FOG HORN di Ray Bradbury, due racconti che hanno molto in comune ma che soprattutto ci permettono di fare una piccola dissertazione sulle opere di due tra i più gandi autori che le forze dell'horror e la fantascienza abbiano mai annoverato nelle loro schiere. Questo articolo è stato scritto per i tipi della Dagon Press che pubblicano la più autorevole rivista dedicata a Lovecraft edita in Italia. Se non conoscete STUDI LUVECRAFTIANI senza dubbio avete una lacuna da colmare...

 

 “Quando guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te”

    F. Nietzsche

                        

La storia della critica è piena di stranezze. Riflessioni, deduzioni e miraggi spesso si confondono, assottigliando il confine tra ciò che è e ciò che forse voleva essere. Nulla di strano quindi che quello che segue sia il semplice frutto di una comparazione probabilmente arbitraria, destinato per lo più a riflettere sulla struttura di due racconti che corrono meravigliosamente paralleli sull’orlo dell’abisso e che finiscono per assomigliarsi, in modo quasi speculare, nell’utilizzo dei simboli, senza per questo risultare uno la fotocopia dell’altro.   

 

L’abisso fa paura. Una paura incontrollabile che si scatena quando meno ce lo aspettiamo, rompendo il superficiale velo di romanticismo che a primo impatto ci suscita la vista dell’oceano o del cielo stellato, perché è proprio sul nero fondo di quelle acque così splendidamente argentate o dietro a quelle stelle che non sembrano mai diaboliche e feroci, che si annida l’immensità dell’ignoto, capace per sua stessa natura di renderci microscopici e fragili, indifesi e completamente soli persino nel nostro pianeta, nel nostro tempo. Nell’epoca della comunicazione e della sovrappopolazione.          

                                                                                                                                

E a proposito di abisso interessante è vedere come, DAGON (H.P. Lovecraft, 1917) (1) e THE FOG HORN (Ray Bradbury, 1951) (2) racconti di due autori per certi versi diversissimi tra loro, possano sembrare un casuale work in progress, in uno scambio di parallelismi così sorprendenti da far considerare il racconto di Bradbury una naturale e al contempo distorta evoluzione del racconto di Lovecraft.

 

Se Dagon non ha certo bisogno di presentazioni, è possibile che qualcuno di voi non conosca The Fog Horn di Ray Bradbury, perciò qualche parola in proposito non potrà certo guastare.

 

The Fog Horn esce per la prima volta negli Stati Uniti su The Saturday Evening Post, il 23 Giugno del 1951.

 

Jhonny è il giovane aiutante di McDunn, guardiano di un faro che con il suo fascio di luce ora rossa ora bianca ora di nuovo rossa, fa da guida alle navi solitarie. Ed è una notte gelida e nebbiosa, quando il vecchio guardiano si lascia andare ad una confessione e racconta a Jhonny una strana storia, su una misteriosa creatura che, una volta l’anno, viene a visitare quell’angolo di terra. Una misteriosa creatura che appartiene alla notte dei tempi e che emerge dall’abisso dopo un lungo viaggio.

 

Finora non te ne ho parlato perché temevo che mi prendessi per matto. Ma ormai non posso rimandare oltre, questa è l’ultima notte perché, se non ho sbagliato a segnarla sul calendario l’anno passato, questa è la sera del suo arrivo.” (Ray Bradbury, 1981, pag 66)

 

Jhonny stenta a comprendere le parole di McDunn, almeno fino a quando la creatura non affiora in superficie e si mostra in tutto il suo sconvolgente splendore:

 

“E poi, dalla superficie di quel gelido mare emerse una testa, una testa gigantesca dalle oscure sfumature, con occhi immensi, e poi anche un collo. E poi…no, non un corpo, ma ancora collo e poi sempre altro collo! La testa rimase poi immobile a una dozzina di metri dal livello delle acque, sostenuta da un collo snello e stupendo color del buio E solo ora il suo corpo, come una piccola isola di corallo nero intessuto di conchiglie e gamberi cominciò a levarsi dalle oscurità segrete delle acque. (Ray Bradbury, 1981, pag 68)

 

Una volta emersa, la creatura inizia improvvisamente a rispondere al richiamo della sirena del faro, in un triste e romantico corteggiamento destinato a concludersi tragicamente quando i due guardiani provano incautamente a zittire l’oggetto del desiderio del mostro che, a quel punto, non può far altro che scagliarcisi contro per distruggere ciò che lo rifiuta:

 

“E dopo un po’ nasce la voglia di distruggere l’oggetto del tuo amore, qualunque cosa esso sia, perché non possa più farti soffrire.” (Ray Bradbury, 1981, pag 71)

 

Non è particolarmente importante sapere se dietro The Fog Horn si nasconde un omaggio consapevole al Solitario di Providence, anche se ovviamente non c’è alcun dubbio sul fatto che lo scrittore di “Cronache Marziane” amasse Lovecraft (4) (e come potrebbe essere diversamente?) e lo abbia così tanto apprezzato da citarlo in racconti come “Pillar of Fire” (5) “Zero Hour”(6) e “Usher II”(7), quanto invece è interessante scardinarne i significati e vedere come l’abisso, attraverso il suo simbolico padrone, sia il vero soggetto di entrambe le storie e finisca per rappresentare quella dimensione atemporale, a volte romantica, a volte terribile, con cui nella vita è impossibile prima o poi non fare i conti.

 

I personaggi di Lovecraft ad esempio, spesso indistinguibili gli uni dagli altri, non rappresentano altro che “proiezioni della sua personalità più o meno come una superficie piana può essere la proiezione ortogonale del volume”(8) ( M.Houelebecq, 2001 pag 78) così come nel racconto di Bradbury, Jhonny e McDunn risultano spettatori inermi di fronte alla creatura che emerge dalle profondità oceaniche.

 

Del resto, se pur risulta sempre sin troppo riduttivo fare un’analisi generale dell’opera di un autore così come cercare di ricavare da questa una visione complessiva degli intenti, non ci sono molti dubbi sul fatto che Lovecraft e Bradbury utilizzino nella propria narrativa i personaggi in modo totalmente diverso, con il primo, come giustamente sottolinea Houellbecq, impegnato a dare a questi il solo compito di percepire e con il secondo invece interessato ad una visione del mondo strettamente antropocentrica.

 

Eppure, nello specifico dei due racconti, le differenze sembrano all’apparenza ridursi notevolmente, quasi che anche Bradbury avesse optato in The Fog Horn per non contrapporsi all’ignoto e per accettare la visione lovecraftiana dell’abisso, salvo poi, nel finale, ribaltare il concetto e mettere nelle parole di McDunn tutta la sua comprensione nei confronti del mostro che diviene vittima di un sistema che lo ha ormai sconfitto, almeno sulla terra ferma:

 

Se ne è andato - disse McDunn -  E’ tornato nell’Abisso, dopo aver imparato che nulla si può amare troppo in questo mondo. E’ sprofondato nelle più remote regioni dell’Abisso per continuare la sua attesa forse per un altro milione di anni.” (Ray Bradbury, 1981, pag 74)

 

Ma se i personaggi dei due racconti risultano, nella similitudine della vicenda, diametralmente opposti, con il protagonista del racconto di Lovecraft  intento a meditare sull’orribile prospettiva che potrebbe aspettare il pianeta:

 

Non posso pensare  al mare profondo senza rabbrividire all’idea degli esseri che forse, in questo stesso momento, si trascinano e guizzano sul fondo melmoso, intenti nell’adorazione di antichi idoli di pietra e nell’arte di scolpire le loro detestabili fisionomie su obelischi sommersi di granito. Sogno il giorno in cui usciranno dai flutti e stringeranno negli artigli immensi i resti dell’umanità insignificante, logorata dalle guerre… (H.P.Lovecraft 1989 pag 22)

 

e quello di Bradbury, addirittura propenso a compatire il mostro:Povera creatura! Aspetta e aspetta immersa laggiù, mentre gli uomini vanno e vengono sulla superficie di questo minuscolo e meschino pianeta. Aspetta e aspetta.( Ray Bradbury, 1981, pag 74)

 

non può sfuggire come sia proprio questa differenza a dare alla sovrapposizione dei concetti del rapporto Dagon-The Fog Horn, ancora maggior forza e ad inquadrarli nell’interessante parallelismo di cui sopra.

 

Diviene quindi quasi impossibile non notare come la descrizione del faro da parte dell’autore di Fahrenheit 451:

 

Circondati da acque gelide, lontani da ogni lembo di terra, ogni notte aspettavamo che la nebbia venisse, è mentre lei arrivava noi oliavamo i congegni d’ottone e accendevamo il faro, lassù nella torre di pietra.” (Ray Bradbury, 1981, pag 64)

 

in effetti rimandi al misterioso monolito di Lovecraft:

 

Improvvisamente la mia attenzione fu catturata da un grande e singolare oggetto che si trovava sul fianco opposto della gola, il quale s’innalzava rapidamente a un centinaio di metri da me. Colpito dalla luna che ormai era sufficientemente alta, l’oggetto brillava di bianco. Che fosse soltanto un obelisco di pietra, è un fatto di cui mi accertai presto:  ma giunsi alla conclusione che la sua forma e la sua posizione non potevano essere opera della natura. Esaminandolo più da vicino provai sensazioni che non è facile descrivere, perché nonostante la sua immensa grandezza e la sua collocazione in un baratro che l’oceano aveva sommerso fin dall’alba del mondo, dava la sensazione di essere stato costruito e forse adorato da creature intelligenti.” ( Lovecraft, 1997, pag 20)

 

Tuttavia, mentre il faro di Bradbury è ovviamente opera umana, l’occhio costruito sull’orlo dell’abisso, intento a vegliare sulla terra ferma e a riprodurre un suono di allerta che si rivela un inquietante richiamo per gli abitanti del profondo, il monolito di Lovecraft appare misterioso, eretto e scolpito in un Era lontana in cui mostruose e gigantesche divinità acquatiche venivano adorate da quella che Lovecraft descrive come una probabile popolazione primitiva, antecedente all’uomo di Neanderthal:

 

“Fui colpito, come ho detto, dalle loro dimensioni e dall’aspetto grottesco, ma un attimo dopo decisi che doveva trattatasi semplicemente degli dei fantastici di una primitiva popolazione di pescatori o marinai; una popolazione, peraltro, i cui discendenti erano morti milioni di anni pirma che nascesse l’antenato dell’uomo di Neanderthal o di Piltdown.” (Lovecraft, 1989 pag 21)

 

Ecco quindi che se nel caso di Dagon il concetto di abisso pare ancora avere una certa presenza tangibile sulla Terra, in Bradbury il faro lo si può intendere più che altro come simbolo, monumento alla vittoria del progresso dell’uomo che con la scienza nega gli antichi padroni del globo e si appropria di un territorio che comunque non sarà mai veramente solo suo.

 

Non stupirebbe certo scoprire che le pietre alla base del faro proprio al monolito immaginato da Lovecraft appartengono, usate dall’essere umano in un delirio d’onnipotenza che lo fa sentire sicuro di poter controllare il proprio spazio vitale.

 

Ma quando guardi nell’abisso, l’abisso ti guarda.  

 

Così, ancora una volta, l’uomo si dimostra in qualche modo vittima dell’ignoto, forse persino manipolato da forze ancestrali e subliminali che lo rendono microscopica pedina al cospetto dei misteri dell’infinito e del profondo. L’abisso è ancora vivo e il suo messaggero mostruoso è qui per dimostrarlo.

Quando il dinosauro si avventa sul faro:

 

Scorsi in un lampo le sue gigantesche zampe, con la pelle squamosa che ricopriva le membrane tese fra dita appena abbozzate rilucente di mille scintille, artigliare la torre. L’immenso occhio che si apriva sul lato sinistro di quel capo colmo d’angoscia scintillò davanti a me come un gigantesco paiolo in cui avrei potuto precipitare urlando. La torre tremò. La Sirena da Nebbia gridò. Il mostro afferrò la torre e digrignò i denti contro i vetri che si frantumarono cadendoci addosso.”(Ray Bradbury, 1981, pag 72)

 

balza alla mente una straordinaria concettuale somiglianza con il dio pesce Dagon di Lovecraft che si avventa sul monolito di pietra a reclamare il suo domino sulla terra:

 

“ Poi all’improvviso lo vidi. L’essere affiorò dall’acqua nera con un solo risucchio: vasto, ciclopico e disgustoso sfrecciò verso l’obelisco come un meraviglioso mostro d’incubo, poi abbracciò la stele con le enormi braccia scagliose e piegò la testa, emettendo una serie di suoni misurati. Credo di essere impazzito allora.” (Lovecraft 1989, pag 21)

 

Poco conta ovviamente se il dinosauro di The Fog Horn sia molto più simile ad un Plesiosauro e certamente meno pericoloso di quanto lo sia il terribile Dagon, perché sia il mostro che Dagon sono l’incarnazione dell’abisso e dell’ignoto ed è questo ad incrinare, a prescindere da ciò che veramente si nasconda nelle profondità, tutte le certezze umane e a dar vita alla paura:

 

Non oso descrivere nei particolari i loro corpi, i loro volti, perche il semplice ricordo mi fa star male. Grotteschi oltre l’immaginazione di un Poe o di un Bulwer Lytton, nell’insieme erano maledettamente umani ma avevano mani e piedi palmati, labbra enormi e mollicce, occhi vitrei e sporgenti e altri tratti ancora più spiacevoli. Cosa alquanto strana sembravano sproporzionati rispetto allo sfondo: una delle creature era rappresentata nell’atto di uccidere una balena che era poco più grande di lei. (H.P. Lovecraft, 1989 pag 20 e 21)

 

Se perciò è l’abisso al centro dell’attenzione dei due racconti, o meglio quello che ci si nasconde e che improvvisamente emerge, rivelandosi per qualche istante per poi tornare nelle profondità dell’oceano, allora questo non può che giocare un ruolo definitivo, destinato ad increspare prepotentemente l’apparente tranquillità di questa dimensione per poi lasciare che i cerchi d’acqua concentrici che restano in superficie dopo il suo inabissamento, risultino l’unico segno di una qualche importanza, oltre che la traccia tangibile dell’inquietudine cosmica.

Una volta cessati, la dimensione infranta può tornare al suo stato iniziale.

 

“ - Se ne è andato - disse McDunn -  E’ tornato nell’Abisso […] E’ sprofondato nelle più remote regioni dell’Abisso per continuare la sua attesa forse per un milione di anni. ( R.Bradbury pag 74)

 

Ma se in Bradbury, l’abisso resta comunque ammantato di un certo romanticismo, regno della solitudine del mostro e archetipo dello sguardo che spesso l’autore rivolge al passato, (9) in Lovecraft il concetto appare malvagio, popolato da divinità oscure, fautrici di un disegno sconosciuto agli esseri umani, ma sempre in agguato, pronte a riprendersi, un giorno o l’altro, il dominio anche sulla terra ferma e magari a vendicare la solitudine del Plesiosauro di Bradbury. Dagon, come dice lo stesso Lovecraft a proposito del suo racconto, è “la pura e semplice descrizione di uno stato d’animo” (10) (Lovecraft, Teoria dell’Orrore, pag 50), uno stato d’animo si potrebbe aggiungere, basato sull’orrore puro e sull’improvvisa quanto ineluttabile consapevolezza che sulla Terra non siamo soli e che questa non ci appartiene.

 

Bradbury in qualche modo ribalta il concetto, si schiera senza mezzi termini dalla parte del mostro ne fa una figura tragica ingannata dai suoi stessi sensi, che scambia un faro per una compagna:

 

E qui c’è il faro che ti chiama, con il suo lungo collo simile al tuo che si erge dalla superficie del mare, con un corpo ugualmente simile al tuo e, più importante di tutto, con un voce uguale alla tua. Adesso capisci, Jhonny, lo capisci?” (R. Brdabury 1981, pag 70-71)

 

Similitudini e parallelismi quindi, ma anche vedute diametralmente opposte, in due racconti di due autori diversissimi, con un concetto di abisso e di ignoto, superficialmente inteso sia come passato misterioso che come presente (quasi) invisibile, ma dal significato più profondo e  straordinariamente complementare, teso a dividersi in due pezzi in grado poi di incastrarsi nuovamente alla perfezione e di dar vita ad un’unica figura mostruosa a più facce, capace di rappresentare fisicamente ciò che si annida nelle profondità oceaniche e che diviene sulla carta solo una delle ipotesi possibili. Nessun dubbio, infatti, che nelle opere complessive di entrambi gli autori non sia solo l’oceano a nascondere mostri; neppure gli spazi siderali o le coscienze psichiche ne sono immuni infatti, perché l’abisso non solo ci circonda, ma si annida anche dentro di noi.

E continua a scrutarci.

 





NOTE

 

Le note che seguono si basano su una ricerca comprata tra varie fonti e sono quindi frutto di un controllo incrociato proveniente da diversi volumi. In alcuni casi un controllo specifico è stato impossibile e ci si affida quindi a quanto riportato da altri testi.

Segnaliamo tra questi The Revised H.P. Lovecraft Bibilography, Mark Owings e Jack Chalker, Mirage Press, Baltimora 1973;  H.P. Lovecraft and Lovecraft Criticism: An Annotated Bibliography di S. T. Joshi, Kent State University 1981;  The Bradbury Chronicles: The Life of Ray Bradbury, Sam Weller, William Morror Publ., New York, 2005

 

 

 

 

 

(1)  LOVECRAFT H.P., Dagon, Luglio 1917, pubblicato per la prima volta in “The   Vagrant”, novembre 1919 e uscito su “Weird Tales” nell’ottobre del 1923. 

Qui citato in H.P.Lovcraft Tutti i racconti 1897-1922, a cura di Giuseppe Lippi, Oscar Narrativa 1989.

 

(2)  BRADBURY RAY, The Fog Horn 1951, pubblicato per la prima volta in The Saturday Evening Post il 23 giugno 1951 e uscito nella raccolta The golden Apples of the Sun, New York 1953. Qui citato con il bizzarro titolo “Il risveglio del dinosauro” in Al cinema con il mostro a cura di Peter Haining trad. di Gianni Montanari e Guido Zurlino, Arnoldo Mondatori Editore, 1981

 

(4)  “In november 1939, he [Bradbury] wrote a letter to  Wisconsin-based publishers           August Derleth and Donald Wandrei of Arkham House to praise their
first book, THE OUTSIDER AND OTHERS, written by H. P. Lovecraft. "I, like
many other fans, have known and loved H.P.L.'s work", Ray wrote, but his
interest in Lovecraft was short-lived once he stopped imitating writers".

WELLER SAM, The Bradbury Chronicles: The Life of Ray Bradbury, William Morror Publ., New York, 2005, p.101

Bradbury si formò inoltre sulle pagine di Weird Tales la rivista che ospitò buona parte dei racconti di Lovecraft.

 

(5) BRADBURY RAY “Pillar of Fire” in Le Radici del Futuro, 554, L’Altare del Grande  Fuoco, tr. Luigi Cozzi e Ugo Malaguti, ill.Virgil Finaly

 

(6)     BRADBURY RAY, Zero Hour , in Questa notte attenti agli Ufo, a cura di C. Fruttero e F. Lucentini, 344/48, Ora Zero, tr. Carlo Fruttero, Maggio 1978, Omnibus, Arnoldo Mondandori Editore Milano.

 

(7)     BRADBURY RAY, Usher II in Cronache Marziane, tr. di G. Monicelli, Settembre 1954, Arnoldo Mondatori Editore, Milano

 

(8)     HOUELLEBECQ MICHEL H.P. Lovecraft Contro il Mondo, Contro la Vita”, tr. Sergio Claudio Perroni, Passaggi Bompiani  Marzo 2001

 

(9)     Bradbury tra le altre cose, è stato lo sceneggiatore di Moby Dick, regia di Jhon Houston, celebre adattamento cinematografico del romanzo di Melville. A sentir Bradbury ( Introduzione a “La sirena della baia solitaria”, Top Fantasy-il meglio della letteratura fantastica, a cura di Josh Pachter, tr. Claudio De Nardi, Reverdito Editore, 1989) sembra che fu proprio il racconto The Fog Horn a convincere Huston ad affidargli la sceneggiatura del film. Vero o no che sia l’aneddoto, non può ovviamente sfuggire come anche nel film in questione l’abisso giochi un ruolo fondamentale nell’opera di Bradbury. The Fog Horn ha inoltre ispirato il celebre film di Ray Harryhaussen Beast from 20,000 fathoms (Titolo italiano: Il Risveglio del Dinosauro) per quanto il film, di fatto, non ne sia a tutti gli effetti la trasposizione cinematografica.

 

(10)  LOVECRAFT H.P. Teoria dell’Orrore, Tutti gli Scritti Critici, a cura di G.De Turris, tr. di Claudio De Nardi, Castelvecchi, Maggio 2001





scritto da: Francesco Cortonesi, 02/02/2013


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